Sugli altipiani rocciosi
del Novelurendàr, poco più a nord di
Candarya, si estende il desolato deserto di Kochat
të mhëda, la piana delle “grandi ossa”. È un luogo
inospitale, arido e pietroso, senza vegetazione e con poca fauna ma esercita un
fascino particolare su ogni viaggiatore che si trova a passare da quelle
parti. Quasi ovunque, per decine di leghe in ogni direzione, spuntano dalla terra argillosa le ossa di animali
colossali, morti centinaia, se non migliaia
di anni fa. Le ossa, pietrificate dal sole e ripulite dal vento, svettano candide
come il gesso sul terreno rosso fuoco, creando un contrasto formidabile e difficile
da dimenticare. Mia madre, la quale è una Sapiente in botanica e storia naturale, mi disse
una volta che si tratta dei resti di enormi pesci che nuotavano in quello che un tempo era un vasto mare
interno. È una cosa a cui credo a fatica; mi sembra davvero
incredibile che nell’Erondàr, anche se in tempi remoti, vivessero creature
marine enormi come quelle che solcano le acque oceaniche a centinaia di miglia
dalla costa e che nessuno, a parte gli “uomini di sale” che abitano Nem-Hesi - la misteriosa città
galleggiante - ha mai visto. Da bambino mi rifiutavo di credere che il nostro
mondo potesse cambiare in modo così radicale; per me il mare, le montagne,
le pianure e le foreste stavano dove
erano sempre state. Era assurdo pensare altrimenti. Mia madre mi spiegò che il mondo, invece, muta in continuazione e a
volte cambia aspetto come una piana polverosa dopo un acquazzone, tanto da
diventare irriconoscibile. Le montagne crescono
come le piante, la terra si innalza sopra il mare e si inabissa tra i flutti,
secondo i capricci dei khame. Mia madre, quando tornava dai suoi lunghi viaggi
di studio, ci ha sempre raccontato
storie talmente fantastiche da risultare
inverosimili e mia sorella ed io non siamo mai stati molto propensi a credere a
tutto ciò che ci diceva. Tuttavia, passando sotto quelle alte volte di ossa
bianche, con il vento del deserto che si infilava fischiando tra di
esse, a tratti mi sembrava veramente di udire il suono delle onde del mare.
martedì 18 dicembre 2012
martedì 27 novembre 2012
Il Piccolo.
Se si viaggia nel Margondàr, a sud est dell’Awrasùhre - il grande mare interno dell’Erondàr - e si abbandonano le vaste
distese coltivate per dirigersi verso le foreste che estendono ai piedi della
cordigliera meridionale, non è raro incontrare le ragazzine Gahriné che
pascolano i loro “piccoli”. La pacifica e colorata popolazione semi-nomade dei Gahriné
attribuisce grande importanza al ruolo materno della donna ed educa le bambine
alla maternità sin dalla più tenera età. Verso i sei anni, alle bambine viene affidato
un cucciolo di smærdjass, un mammifero
onnivoro locale di indole estremamente mite, che loro devono accudire giorno e
notte, portandolo al pascolo, badando alla sua igiene, curando la sua salute e
proteggendolo dai pericoli del mondo esterno. Ogni bambina chiama il suo cucciolo
“il mio piccolo”, esso diventa a tutti gli effetti un membro della famiglia e
lui e la sua “piccola madre” diventano inseparabili. Questo animale raggiunge
presto dimensioni ragguardevoli, fino ad arrivare alla stazza di un grosso
verro e inizia subito a dare problemi alla padroncina. Lo smærdjass, infatti, è uno degli animali più deficienti che si
possano incontrare in tutto l’Erondàr; la sua stupidità è abissale e pari solo alla sua
prolificità, unica cosa che spiega come mai questo ottuso erbivoro non si sia
ancora estinto. Ha una memoria cortissima e non è in grado di fare tesoro delle
sue esperienze, per cui ha una spiccata tendenza a cacciarsi in ogni tipo di
situazione pericolosa: precipita nei dirupi, finisce sotto gli zoccoli dei
cavalli o sotto le ruote dei carri, affoga in poche braccia d’acqua, va a
rovistare nei campi coltivati scatenando l’ira degli agricoltori locali, cade
vittima dei predatori che sono ghiotti della sua carne grassa e saporita e che
lui non identifica come potenziali pericoli, proprio perché totalmente cretino.
Riuscire ad accudire questo animale è comprensibilmente un compito molto arduo
per le ragazzine Gahriné che passano la giornata e parte della notte a tirare
fuori dai guai i loro “piccoli”. Al raggiungimento della pubertà, le ragazze e
gli animali, ormai adulti, vengono separati, con grande sollievo delle “piccole
madri”; questo importante rito di passaggio viene celebrato con una grande
festa dove lo smærdjass viene
allegramente macellato, fatto arrosto e consumato dall’intera comunità.
martedì 30 ottobre 2012
La Cocozza Colossa
Attorno al Mare della Brezza, tra le grandi vie di
comunicazione del Piccolo e Grande Anello, si estende l’immensa Cintura delle Messi, il “granaio dell’Impero”,
una sterminata area coltivata dove cresce la grande parte delle derrate
alimentari che nutrono le genti dell’Erondàr.
La perizia degli agronomi erondariani ha creato nel corso degli anni innumerevoli
incroci fertili tra specie vegetali e dato discendenza stabile a nuovi tipi di
frutta, legumi, piante, radici e tuberi mangerecci, anche
sorprendenti. Il mio preferito tra questi ibridi vegetali è senz’altro la Cocozza Colossa. Si tratta di una
cucurbitacea di grandi dimensioni che, giunta a maturazione, produce dei gas
non tossici al suo interno che la fanno levitare, come l’Aria Leggera con cui si riempiono i palloni dei nuvolanti imperiali. Non è raro vedere
interi campi di questi ortaggi maturi che
si muovono pigramente a mezz’aria, spinti dalla brezza o che scendono in massa
dai declivi, dopo essersi liberati dai pampini e dai tralci che li trattenevano
al terreno. I gas prodotti da questa zucca e che permettono all’ortaggio di
levitare, sono vapori molto inebrianti, come le bevande fermentate, e spesso i
raduni per il raccolto si trasformano in feste sfrenate che, in molte culture
locali, sono divenuti dei veri e propri riti agrari di carattere orgiastico. La Sagra della Cocozza Colossa di Fruhgendàrt
è famosa per gli eccessi compiuti dai partecipanti in preda all’ebbrezza. Uno dei momenti topici di questa festa popolare è la Corsa delle Cocozze, evento spettacolare
durante il quale i giovani locali spingono le zucche giù dall’alta collina dove
sorge la città verso il mare sottostante e le cavalcano a rompicollo in una
gara senza esclusione di colpi. I “cavalieri” delle zucche che riescono a raggiungere
il mare, vengono nominati Domatori della Cocozza
e hanno diritto di scelta tra le ragazze intervenute, con le quali si accompagneranno
per il resto della serata. Le zucche restano a galleggiare sull’acqua, a
decine, e al tramonto vi vengono praticati dei fori per far fuoriuscire il gas
che viene incendiato, provocando splendidi fuochi colorati e spettacolari
deflagrazioni che segnano il culmine della festa. Fortemente sconsigliato
portare le proprie figlie, giovani pulzelle o ragazze da marito a questa sagra…
a meno che non si voglia allargare la famiglia in tempi brevi.
lunedì 8 ottobre 2012
Fiori nel deserto.
Non amo recarmi nelle zone
desolate del Vhâcondàr, il “Paese Vuoto”
che si estende ai margini meridionali dell’Impero. Si tratta di una sterminata
distesa desertica che separa l’Erondàr
dai misteriosi ed esotici Regni
Meridionali. Centinaia e centinaia di miglia di deserti sabbiosi e
altopiani rocciosi calcinati dal sole; un ambiente arido e ostile dove è
impossibile sopravvivere senza l’ausilio di una guida indigena che conosca i
segreti di Er’el Atant’ar, “il
Martello del Sole”, come lo chiamano le popolazioni locali. Mi trovavo su un
altopiano a ovest di Ir’Elerkir,
sulle tracce di una banda di predoni berberi che avevano compiuto delle scorrerie
nel Suprendàr; dei predoni
nessuna traccia, in compenso incappammo in una femmina di Rhoyiik con due cuccioli, che occupavano l’unico posto all’ombra nel
raggio di decine di miglia, sotto un alto esemplare di “Pino del Deserto”. La mia
guida alahikineta mi sconsigliò
vivamente di andare a disturbare l’animale, poiché le femmine di questa specie
sono terribilmente aggressive quando si tratta di difendere i propri piccoli e
nessuno sano di mente vorrebbe fare infuriare un uccello carnivoro alto il
doppio di te e con artigli che potrebbero facilmente squartare un cavallo. Mi trattenni giusto il tempo di un veloce schizzo sul mio diario di viaggio. Verso la fine
di quella infruttuosa giornata, la guida avvistò quelli che sembravano essere
degli alti pali piantati nel terreno; si trattava di un gruppo di Ir’Alca Te’nei, letteralmente “Albero
che sazia” o T’ai Sen’Ehn, “l’Amico
del viandante”, nel dialetto di Elleysera. Queste altissime piante grasse hanno la proprietà di fiorire istantaneamente quando il loro fusto viene intaccato o inciso, producendo grossi fiori bianchi e
carnosi, zuccherini e molto nutrienti. Si tratta di una strategia di difesa
della pianta estremamente subdola e crudele: la prima fioritura blandisce l’aggressore,
fornendogli ottimo cibo in quantità; se l’attacco continua, la seconda fioritura
sviluppa un potente veleno che solitamente non lascia scampo al malcapitato. La
mia guida lo sapeva bene; cucinò i primi fiori sulla pietra e con quelli
successivi fabbricò il veleno per le proprie frecce. Sarò stato cotto dal sole
e riarso dalla sete, ma quelle dolcissime frittelle vegetali sono state tra le
cose più buone che abbia mai mangiato.
venerdì 21 settembre 2012
Un passato da guerrieri.
Ricordo che mi imbattei in
questo Nano dall’età indefinibile sulla strada per Vetwadàrt, provenendo da Solian.
Egli ritornava dal distretto minerario, sito poche miglia più a nord, dove aveva
lavorato per due turni consecutivi ed era comprensibilmente di umore tetro (il
turno lavorativo dei Nani Minatori ha
una durata variabile tra i venti e i trenta “cicli di sonno”, quindi dura circa
un mese lunare). Nondimeno accettò di posare per me, anche se per poco tempo durante
il quale mi guardò ingrugnito senza nemmeno posare il pesante sacco degli
attrezzi da minatore che portava con sé. Quello che mi colpì particolarmente fu
la bellissima ascia nanica cerimoniale
a cui si appoggiava; non poteva trattarsi di un attrezzo da lavoro, non era certo
un utensile da miniera. Gli feci dei gran complimenti per essa e gli chiesi lumi sulla
sua provenienza; questo stemperò un poco il suo atteggiamento burbero e lui mi raccontò, con palese orgoglio, che l’ascia apparteneva alla sua
famiglia da generazioni. Il suo clan, originario del basso Suprelurendàr, aveva
una lunga tradizione guerriera e di fiera indipendenza, prima di essere
sconfitto dalle truppe imperiali e forzato a disperdersi. I maschi della sua
famiglia erano entrati in massa nel Sindacato
dei Nani Minatori e lavoravano spostandosi per tutto l’Erondàr, da un distretto
minerario a un altro. Quell’ascia era la sola cosa rimasta a testimoniare che, un
tempo, i suoi antenati appartenevano a un clan di valorosi guerrieri.
lunedì 3 settembre 2012
Bei Baffetti
Questa bizzarra scultura è una testa votiva delle popolazioni Beheree che popolano la costa a sud di Solian. Di sculture e immagini votive ne è disseminato l’Erondàr ma questa è una della mie preferite. Un po’ perché è sulla strada che conduce alla mia città e così quando la incrocio, di ritorno dalle mie missioni, mi sembra di sentire già aria di casa; un po’ per la sua aria buffa, con quei baffi arricciati e l’aria seriosa e saccente. Le popolazioni locali l’hanno adottata, chissà perché, come pietra votiva per ingraziarsi i favori dei khame per un buon matrimonio, buona salute e fertilità. Le ragazze in età da marito, nei giorni di festa, vi portano monili d’osso e di legno per trovare marito e, spesso, i loro desideri vengono esauditi poiché scapoli navigati e giovani di belle speranze conoscono il luogo e vi si appostano per fare cernita delle ragazze più belle. Il posto è anche presidiato dalla forza pubblica repubblicana perché sovente vi scoppiano risse per la contesa di una fanciulla particolarmente attraente, zuffe furibonde delle quali il povero Lai Lethoi (che in lingua locale vuol dire “bei baffetti”) porta sul viso diversi ricordi. La donna che vi ho ritratto accanto, con il bambino nella fascia e il cesto di offerte alimentari, era lì per pregare Lai Lethoi di essere meno “generoso” con lei. Dopo il sesto figlio – mi disse – aveva assolutamente bisogno che i khame concedessero i loro favori a una famiglia meno numerosa.
mercoledì 8 agosto 2012
La Prima Luce
Lungo la strada che dalle terre delle Città Libere conduce a Candarya, passando per l'eremo del mio vecchio amico Alben, si incontrano I Grandi Che Guardano Lontano. Si tratta di una lunga serie di colossali volti umani scavati nella roccia della scogliera a picco sul Eolànisùhre, il Mare del Sole che avvolge le propaggini orientali del Novelùrendàr. Queste immense sculture raffigurano i visi degli imperatori della prima dinastia erondariana e furono scolpiti per volontà di Erehein Erondàr, fondatore della seconda dinastia, per celebrare le imprese degli imperatori che lo avevano preceduto ed elevare ufficialmente a pari titolo il ramo della famiglia che era salita al trono. Tutti i volti degli imperatori guardano a oriente, a cogliere la prima luce del sole. All'alba del giorno seguente allo "Sposalizio Celeste", il congiugimento astrale delle due lune che segna l'inizio del nuovo anno, un mago della confraternita dei Luresindi celebra l'antico rito della Prima Luce, cogliendo il primo barlume del sole nascente e catturandolo con il cristallo di silcardĕa posto in cima al suo bastone. La pietra viene poi portata a Vàlhendàrt, la capitale imperiale, e riposta nel tabernacolo del tempio dei Custodi della Luce, fino alla successiva eclissi delle due lune. L'anno scorso, trovandomi in navigazione da Candarya verso Solian, potei assistere al rito dal mare, posizione privilegiata per godere appieno della bellezza dell'evento: all'inizio, l'alta scogliera è immersa nell'oscurità, i giganteschi volti invisibili; poi, il cristallo del mago, colpito dal primo raggio di sole, emana una luce vividissima che rischiara il volto scolpito di Vrlam Erondàr, il fondatore dell'impero e capostipite della prima dinastia, in cima al quale sta il luresindo. Subito dopo, rischiarata dal sole che sorge, l'intera scogliera si illumina e i volti degli imperatori emergono dall'oscurità come evocati dagli abissi del tempo. Lo spettacolo è mozzafiato e, per quanto mi riguarda, molto commovente. Non a caso, il tratto di mare prospicente il promontorio dei Grandi in queste occasioni, se le condizioni del mare lo permettono, è sempre affollato di imbarcazioni di ogni tipo e stazza, che hanno pernottato alla cappa per assistere all'eclissi della notte precedente e che attendono l'alba con lo svelarsi dei giganteschi volti. Non è raro vedere, tra le altre, anche le piccole, strane imbarcazioni del Popolo delle Vele giunte dal lontano arcipelago dell'estremo oriente. Questi temibili predoni del mare non sono lì, però, per assistere a una cerimonia a loro estranea ma per arrembare con le loro velocissime imbarcazioni le navi più lussuose, quando la flotta inevitabilmente si sgrana sulla via del ritorno.
martedì 3 luglio 2012
Una strega sulla via.
Alle pendici del Monte Rōuss, nei pressi di una stazione
di posta, mi imbattei in un drappello di fanti imperiali che aveva preso di
mira una mendicante. Questi soldati non erano cattive persone, ma solo giovanotti
in buona salute, rimasti troppo a lungo lontani da casa e dalle ragazze e che
cercavano uno sfogo al tedio della loro corvé. Questo non toglie che i loro
lazzi nei confronti della donna avessero raggiunto un livello inaccettabile. Mi
feci riconoscere come ufficiale superiore e loro dovettero smettere; mi guardarono
in cagnesco per un po’ ma qualche presa di tabacco speziato e un giro di tonico
di leocanide riappacificarono gli
animi e io mi fermai a far riposare il cavallo e a conoscere meglio i militari.
La donna, nel frattempo, era rimasta seduta a terra, indifferente al nuovo
clima disteso così come sembrava esserlo stata alla maleducazione dei soldati nei
suoi confronti. Stava seduta in maniera scomposta, discinta e
coperta di stracci, guardandoci con un sguardo intenso. Mi colpirono i suoi
occhi dal bel taglio, profondi e scuri,
e volli ritrarla. I segni lasciati sul suo volto dall’età e dalla vita
disagiata non riuscivano a nascondere il fatto che doveva essere stata una
bella donna, da giovane. Notai anche il suo bastone da cammino, ritorto e
inciso in maniera insolita, come quello che avevo visto nelle mani di “donne delle erbe” e “benandanti”. Dalle streghe è sempre bene
tenersi alla larga, ma è buona norma anche mostrarsi cortesi; le offrii parte
della mia razione da viaggio che ella accettò senza battere ciglio né proferire
motto e che divorò fino all’ultima briciola. Quindi si alzò, picchiò a terra il
bastone per cinque volte, lo agitò in aria, roteandolo, e se ne andò per la sua
strada, in mezzo ai boschi. Quando dissi ai soldati che quella poteva essere
una strega, suscitai in loro un’ilarità così contagiosa che mi mise di buon umore. Visto
che l’allegria di quei ragazzi sembrava promettere una piacevole serata, decisi
di passare la notte alla stazione di posta, in loro compagnia. Li rintronai per
tutta la serata con i racconti delle mie avventure militari, che loro
ascoltarono con uno stupore quasi infantile. Sarebbe stato invero un bel
episodio da ricordare, se non che, la mattina dopo, trovammo i cinque
cavalli dei soldati nella stalla della stazione morti stecchiti. Il mio,
invece, stava benone.
mercoledì 27 giugno 2012
Compagni di bivacco.
Nelle foreste alle pendici
del massiccio dei Monti Bronzei, a nord di Solian, mentre eravamo sulle tracce di un gruppo di
predoni ghoul, Gmor ed
io avemmo degli inaspettati compagni di bivacco: una lepre maculata e un parrocchetto
crestanera. La lepre sembrava molto incuriosita da noi e si teneva al limitare del nostro bivacco,
fissandoci in maniera quasi fastidiosa. Gmor cercò più volte di catturarla per farmi
provare una ricetta di “lepre alla brace” che aveva letto su uno dei suoi libri
di cucina esotica, ma non ci fu nulla da fare. Il furbo animale si muoveva più
rapido di un fulmine e si ripresentava ogni volta in diversi punti , ora di
lato, ora dietro di noi, mettendosi tranquillamente a sedere e fissandoci con i
suoi luminosi occhi verdi. Provammo anche
a dargli da mangiare ma rifiutò ogni offerta di cibo. Sembrava gli interessasse
solo tenerci d’occhio. A volte, batteva aritmicamente la zampa per terra, come
a lanciare dei segnali. Questo animale vive in branchi numerosi che si spostano
di continuo; probabilmente, quello a cui apparteneva stava migrando da una zona
di pascolo all’altra e la nostra lepre segnalava la nostra presenza ai
compagni. Una brava sentinella! Il parrocchetto,
invece, era molto più socievole, forse fin troppo. Grande poco più di una mano
aperta, era estremamente rumoroso; ancora non
mi capacito di come un animale così piccolo potesse emettere suoni così
potenti. Quando iniziava a cantare, la foresta attorno si zittiva per un
istante. Era particolarmente affascinato dal canto di gola in cui volle esibirsi
Gmor, con mia grande gioia. Accompagnava le armoniche acute della diplofonia orquina
con gorgheggi sorprendentemente assonanti. Si prese talmente confidenza che
volle pulire i denti di Gmor dopo il pasto. La vista di Gmor con la bocca
spalancata e il parrocchetto infilato dentro a beccare i rimasugli di cibo era
una visione così disturbante che non volli ritrarla sul mio taccuino. Il crestanera si rivelò molto utile come
vedetta. A ogni animale di grossa taglia che si avvicinava al nostro bivacco,
si metteva a volare in tondo lanciando stridi altissimi e mettendoci in
guardia. Ci avvisò anche dell’approssimarsi di un gruppo di ghoul, che cercava di sorprenderci nel
sonno e di cui avemmo ragione in poco tempo. Il giorno dopo, ci accompagnò per
tutto il tragitto fino al limitare della foresta, per poi salutarci con trilli
che ricordavano in maniera sorprendente la melodia del canto di Gmor della
notte precedente.
venerdì 22 giugno 2012
Il Burlone
Questa gigantesca testa di granito
apparve una mattina, dopo una furiosa tempesta di sabbia, nel Vhâcondàr settentrionale. Ero in perlustrazione
in pieno deserto con alcune guide della satrapia berbera degli Alahikineti, tra
l’oasi di Karmuti e la città di Alahikin. Fummo sorpresi da una tempesta in piena
notte e ci riparammo in un “budello di drago”, come lo chiamano i nativi: un
pozzo carsico strettissimo che si apre in profondità in una cavità naturale. Passata
la furia degli elementi, ci accorgemmo che il vento aveva spostato intere dune
di sabbia e rivelato questo sorprendente vestigio di una civiltà scomparsa. Gli
Alahikineti sono abituati a questo genere di apparizioni; infatti chiamano la
parte di deserto in cui ci trovavamo “Ir’Elerkir”,
il burlone, perché fa apparire e
scomparire a suo piacimento colonne di pietra, sculture, statue gigantesche e,
dicono i più fantasiosi, intere città. Ho voluto subito riprodurre l'enorme
testa, facendo posare accanto una delle guide per rendere bene le sue proporzioni
colossali. Le tempeste di sabbia ci tormentarono ancora per
giorni ma già la mattina dopo la testa era scomparsa sotto una gigantesca
duna, come se non fosse mai esistita. Il "burlone" si era esibito nell'ennesimo gioco di prestigio.
giovedì 14 giugno 2012
La valle delle teste
Quando percorro la grande
Piana dei Ciclopi, nell'entroterra a nord del Awrasùhre, dove in un remoto
passato si svolsero le più cruenti
battaglie delle Guerre di Unificazione, mi piace passare per la "Valle
delle teste", come la chiamano i pastori locali. È un posto ameno, con
dolci declivi erbosi e ampi pascoli dove, sparse apparentemente a caso,
spuntano enormi teste con la bocca spalancata, dando l’impressione che gruppi di giganti urlanti stiano
affondando in quel mare di erba e annaspino in cerca d’aria. Mi hanno sempre
fatto grande impressione, quelle teste, sin da bambino, quando mio padre mi
portava in queste lande per insegnarmi a cavalcare e a tirare con l’arco. Nessuno
sa chi abbia le abbia scolpite e a quale scopo; a quanto ne so, nessuno ha mai
neanche provato a scavarvi intorno, per scoprire se attaccati a quelle teste,
sepolti sotto decine di metri di terra, ci siano o meno dei corpi colossali. Neppure
mio padre sapeva chi fossero i creatori di quelle statue; c’erano sempre state,
sin da quando i suoi nonni erano fanciulli. Per questo ogni volta si inventava una storia
nuova per spiegarmi le origini di quelle assurde teste urlanti. La mia
preferita era questa: un tempo, ancora prima dell’unificazione dell’Impero da
parte di Vrlam Erondàr, prima persino della supremazia dell’uomo sul mondo
conosciuto, le “Quattro Razze” si affrontavano in guerre senza fine, devastando
la terra e avvelenando l’aria. Gli orchi stanarono dalle montagne del Varliendàr
orde di Troll, costringendoli a combattere per loro. L’avanzata di quegli
esseri di pietra era irresistibile; essi calavano dalle montagne di notte,
annientavano le armate degli uomini e degli elfi, mentre i nani si rintanavano nelle gallerie delle loro miniere. Prima che sorgesse l’alba i troll scavavano enormi
buche nella terra e vi si seppellivano per sfuggire ai mortali raggi del sole. Un
giorno, un giovane mago, avendo individuato il luogo dove i troll si erano
sepolti, praticò un incantesimo oscurando il sole sopra l’intera zona e ingannando
i troll che, credendo sopraggiunta la notte, sbucarono dal terreno per essere istantaneamente
pietrificati dalla luce diurna. “Divennero
statue di pietra – diceva mio padre - senza
nemmeno avere il tempo di metter fuori tutta la testa!” Mentre pensavo a
quella storia, un piccolo Basilisco Vermiglio si posò su una delle sculture di
fianco a me e si mise ad agitare le ali lamellari facendole baluginare al sole
e facendole minacciosamente stridere con rumore metallico. Mi presi giusto il tempo di un
veloce ritratto e mi allontanai: uno stormo di quei rettili volanti può fare a
pezzi un uomo in pochi minuti, sminuzzandolo con le ali affilate come rasoi. Lo
lasciai lì, rumoroso e brillante, a fare la guardia ai troll pietrificati.
domenica 3 giugno 2012
Mercante
Sulla
strada per Vàhlendàrt, lungo il Grande Anello, ho incontrato questo
ricco esponente della Gilda dei Mercanti, mentre supervisionava il lavoro dei suoi
operai che, come è compito della corporazione, riparavano il manto stradale
dissestato. Ostentava un atteggiamento marziale che poco si addice a un
mercante; il suo cavallo, un bel roano del Novelùrendàr,
era addirittura bardato con una frontiera
e un coprinuca d’acciaio, che facevano sudare inutilmente la povera bestia. Il
mercante ha posato volentieri per me; si capiva subito che era un ometto
vanitoso a cui piaceva far mostra dei suoi abiti raffinati e dei suoi gioielli.
In particolar modo mi ha colpito la sua sciabola, un bellissima lama di
Elleysera, con elsa e impugnatura tempestate di pietre preziose e ricoperte da
una lamina d’oro puro. Un’arma da parata, non adatta al combattimento; di
certo, il simpatico ometto che la portava non l’aveva mai usata in tenzone.
lunedì 28 maggio 2012
Lasciapassare imperiale
Come scout imperiale viaggio spesso in incognito, senza uniforme nè altri visibili segni di riconoscimento. Un basso profilo è quello che meglio si addice a uno scout. Talvolta, però, è necessario farsi riconoscere dalle autorità locali: per aprire porte che altrimenti rimarrebbero chiuse, per evitare di essere sbattuti in prigione o anche solo per cavarsi d'impaccio in una rissa da strada, quando non si voglia fare un po' di... sano esercizio fisico. In questi casi io esibisco il lasciapassare imperiale che vedete sopra raffigurato. Le due nappe bianche e quella nera al centro certificano il mio grado militare, che nell'esercito corrisponde a quello di capitano.
venerdì 25 maggio 2012
Ritratto di Gmor
Credo che questo sia l'unico ritratto che sono riuscito, fino ad ora, a fare
al mio amico Gmor. Per motivi che ancora mi sfuggono, gli orchi sono molto
riluttanti a farsi ritrarre; per realizzare questo schizzo sono dovuto
andare a memoria e approfittare dei momenti in cui lui era distratto,
come quando cucina o legge uno dei suoi libri. Sono comunque molto soddisfatto
del risultato.
martedì 22 maggio 2012
Casa di Ian
Questo è
uno schizzo della mia
casa a Soliàn, nella
Federazione delle Città
Libere. Io ho vissuto in molti posti diversi: a Vàlhendàrt, la capitale
dell’Impero, ad Arcendàrt,
la città
sul Vallo e a Sùhrendàrt,
la grande città
portuale, base della Marina imperiale… ma questo è il posto a cui
sono più
affezionato. Ricordo che, quando mi ci trasferii, era una
vecchia torre di
guardia ridotta a un rudere; il borgomastro della città, che
come tutti a
Soliàn non vedeva di buon occhio gli ufficiali imperiali, me la
diede
volentieri in usufrutto a patto che me la sistemassi per conto
mio. Mi ci sono
voluti un paio d’anni ma adesso è un posticino che in città mi
invidiano tutti:
tranquilla e isolata, con una splendida vista sulla baia e
accesso diretto a un
porticciolo privato, alla base della scogliera. La vecchia
armeria sotterranea è
stata in seguito adibita a magione per il mio vecchio amico e
compagno d’armi,
Gmor, quando ha finalmente deciso di raggiungermi.
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